Anche se vivono sommerse dal clamore delle metropoli, le piccole città venete continuano a rivelare i misteri nascosti nei loro recessi meno battuti, quasi dimenticati in un silenzio apparente, quello di una vita segreta ricca di voci e suoni nati su lunghezze d’onda sconosciute ai più. Siamo infatti rimasti in pochi ancora a conoscere certi angiporti assorti e certi penetrali sfuggiti ai piani regolatori; dopo di essi, dove la città finisce in stradine remote che si perdono nei campi, tra case custodite dal verde, da canti di uccelli e ronzii di insetti, pare confinata l’anima vera di questi centri urbani, la loro identità non ancora smarrita.
Accade anche a Treviso, nella strada dei Biscari in località di Santa Bona (non è dedicata alla santa pisana patrona delle hostess, ma al corpo venerabile di una fanciulla egiziana passato di qui all’epoca delle Crociate), le cui siepi ai bordi delle stradine sembrano il filo conduttore di un labirinto che ha come punto d’arrivo la casa di Francesco Piazza. Come accade sempre, occorre superare fin da principio molte apparenze.
L’abbaiare dei numerosi cani all’ingresso non ha il valore di respingere l’estraneo: sono cani abbandonati in queste periferie, che hanno ritrovato una nuova fiducia nell’umano proprio attraverso Piazza che li ha adottati. E il primo segnale del culto di tutto ciò che vive, motivo dominante della sua opera ed elemento di fondo della sua attività. Il giardino pieno di alberi, di fiori e di canti di uccelli è la piena definizione di uno spazio significante, in cui è immersa la presenza umana di un edificio, diventando perciò conseguenza e non motivo dominante.
Nell’interno, cioè nell’ambiente specificamente dedicato alla vita dell’uomo, ricorre frequente la traccia della morte, che appare definita nel ricordo. Si richiama a quelle zone della memoria in cui viene percorsa l’idea del tempo, cioè dell’elemento dominante la vita, in cui entra anche la morte come motivo necessario in una idea di fatalità apparente, che non è altro che l’accettazione di una regola basilare, di un ordine superiore a cui è solo illusione voler contrastare. E’ l’illusione tipica della cultura metropolitana moderna che, nata da una lettura luterana del cristianesimo deviata poi ancora dall’illuminismo, sembra voler cancellare l’idea della morte in una corsa folle al di là dell’ordine naturale.
L’interno dello studio di Piazza, raccolto in una serra aperta sugli alberi del suo giardino (e solo su quelli), animato dai cani, è un vivente rifiuto di queste ideologie di origine nordatlantica, dei miti vitalistici che caratterizzano il nostro tempo. In queste periferie sommerse nel verde possono avvenire anche proteste silenziose, segrete rivoluzioni senza clamori, dedicate ad animali e piante in nome della solare cultura mediterranea che in questi luoghi remoti viene ancora riproposta.
Non occorrono nuovi manifesti o motivi propagandistici: bastano le poche parole arrivate fino a noi di Francesco d’Assisi, il santo di cui Piazza porta il nome come una bandiera (per maggiore chiarezza venetizzato in Checo) e di cui continua nel suo lavoro giornaliero la rivoluzione sempre tradita e attuale oggi più che un tempo.
Il solare studio di Francesco Piazza mostra anch’esso la dimensione celata che presenta in ogni situazione l’identità veneta. La sua realtà apparente di ambiente luminoso e aperto maschera infatti assai bene la sua funzione di essere il vero laboratorio di un alchimista. Qui non si compie la tipica operazione alchemica di trasformare la materia inerte in oro prezioso, ma ne viene realizzata un’altra ben più difficile, quella di fissare la vita che continuamente sfugge dietro lo scorrere del tempo, come mantenere fedeltà, nei silenzi della strada dei Biscari, a un ordine naturale altrove continuamente tradito e violentato.
Non è certo il tempo meccanizzato e ossessivo che scandiscono gli orologi e neppure il fluire periodico della sabbia nella clessidra: potremmo richiamarci piuttosto al tempo sempre relativo che misurano le meridiane, esatto solo nel rendiconto finale, quando si verifica la sentenza che tutte portano iscritta nel quadrante.
Potrebbe sembrare la descrizione di un interno particolare, di un luogo di lavoro costruito a misura dell’artista, ma in realtà è difficile pensare a questo ambiente come a un interno, tanto sembra una diversa scansione di quell’esterno a cui esso è dedicato. Le grandi finestre non sono infatti aperture, cioè segnali di una separazione, quanto piuttosto cornici che riquadrano ognuna un quadro di Piazza, eternamente se stesso, eppure mutevole in ogni ora del giorno col variare della luce e in ogni giorno col fluire delle stagioni. Si avverte qui allora come sia il tempo a definire la vita espressa dalle forme immerse nello spazio.
Potremmo pensare ora alle sublimi ossessioni di molti artisti che vissero nel chiuso del loro studio, guardando spazi segnati dalle finestre: viene alla mente, quasi automatico, l’incubo divino di Giorgio Morandi. È un riferimento che non vale assolutamente per Francesco Piazza, che non ha mai creduto al grande tema accademico della natura morta. La stessa definizione gli deve suonare come una contraddizione di termini.
La natura morta infatti è un tipico soggetto di studio, come la figura. Sono motivi che arrivano a definire di per se stessi un particolare tipo di interni, basti pensare ai pittori fiamminghi. Ma certo Francesco non ha mai conosciuto nel suo studio l’inferno dell’atelier, quando su un divano sgangherato si allunga una modella mezza nuda in un dialogo impossibile col manichino nell’angolo, mentre una rosa nel bicchiere lentamente si sfoglia, tre bottiglie continuano a ricoprirsi di polvere immemorabile e i limoni putrescenti colorano col loro sentore l’odore acuto della trementina.
Anche a Francesco è certo toccata la sua parte di inferno su questa terra, come a tutti quelli che tendono a vivere troppo intensamente negli spazi dell’animo, ma non ne fa certo un soggetto della sua pittura.
Su questo cade ogni dubbio appena si leggano le sue poesie raccolte sotto il titolo emblematico di Alberi anime nel 1985. Con la scopertura psicologica tipica dei pittori che scrivono, sempre interessanti proprio perché sorpassano le allusioni equivoche in cui vive la parola, egli nella poesia definisce il suo spazio psicologico compiutamente, appunto trattando le parole con la chiarezza con cui maneggia i colori e le linee, anziché con la malizia con cui si usa trattare la parola, puro simbolo che vive nell’ambiguità. Nella sua poesia parla sovente dell’arte e di uno dei suoi maestri ideali: “Qui stende Klimt la sua / sintassi sgangherata / di precursore. Il mondo / avrà di queste strisce…” Il suo inferno è forse nell’impotenza di fronte al mistero (“Perché geranio muori?”), però il volo di un moscone gli ricorda il Salmo 104, mentre nascosto nel profondo tanto vicino “Il gufo canta”, mentre si cerca “un nuovo gioco, / sentirsi vivi quando ormai si muore”.
Il plurale è assai indicativo e si richiama agli altri versi: “Noi che abbracciati in spirito, congiunti / nelle anime, abbiamo a primavera / da una stessa finestra ‑ indugio amato ‑ / indagato la vita, nella sera”. Il plurale infatti, unito alla ricorrente citazione biblica, si richiama all’antico dogma della communio sanctorum, all’idea motrice della comunità dei giusti come corpo mistico in cui tutto l’umano confluiva e veniva miracolosamente associato.
Lo spazio indefinibile del suo studio riflette così anche il concetto fondamentale del più antico misticismo. E’ pur vero che “Ma tutti noi siamo / come foglie avvizziti. / E’ Isaia”, però “Bagnati dal miracolo indugiamo”.
E’ il miracolo sempre rinnovantesi, che egli fissa sulla lastra o definisce sulla tela nel mondo concluso e completo del suo studio, come descrive in Incidendo, che potrebbe venir considerato come la più completa definizione della sua visione estetica: “Sarà l’odore d’incenso / che emana la lastra, / sarà il profondo dolore / che mi frequenta l’anima… / ma io dico: `Gloria / al Padre, / al Figlio, / allo Spirito Santo’ / e l’albero nasce, sambuco / con le fronde nel sole / e nell’ombra, / come un altro, non io, / l’ha con amore pensato.”
L’idea di base della communio sanctorum viene così estesa dalla comunità umana a tutto l’ordine dei viventi, in un ampliamento del cristianesimo che può avvicinarsi alla sacralità panica di Virgilio, cioè a una sacralità attribuita a tutti gli elementi della natura. Questa estensione del sacro è probabilmente l’apporto più importante della cultura romana alle religioni successive e in ogni epoca vi furono ordini e movimenti che a essa si ispirarono, nelle forme dettate dai tempi.
Ciò che non manca di sconcertare nell’opera di Piazza, grafica o pittorica, è come il concetto di una sacralità della natura, che l’arte deve rivelare, venga espresso sempre nei moduli della più assoluta fedeltà al vero. Evidentemente sovrapporre un’ideologia formale all’opera suona a Piazza come un tradimento, cioè come sovrapporre alla natura, ordine compiuto e dominato da rigida legge di necessità, una regola estranea.
Il suo modulo rigidamente realista potrebbe far pensare agli artisti da cui prese le mosse, ai Ciardi, a Fattori, o al suo maestro diretto Giovanni Barbisan; sono ascendenze però puramente tecniche, anche se rivelano le sue radici trevigiane con una componente toscana. Da questi ha acquisito, oltre al magistero tecnico, l’idea di base della pittura di paesaggio, che però ha concettualmente superato quando scoprì la sentenza di Klimt: “Il paesaggio è qualcosa di sacro, che vive indipendente dall’uomo”.
La frase rivelatrice lo condusse a un approfondimento dell’idea di sacralità del paesaggio e contemporaneamente al suo rapporto con l’uomo che nel paesaggio vive, tanto da distaccarlo spiritualmente dalle esperienze dei maestri dai quali ebbe il suo punto di partenza. Probabilmente gli artisti che sono alle sue origini pittoriche erano interessati al paesaggio come fatto contemplativo, in una intonazione che aveva matrici accademiche: il paesaggio allo stesso modo di una natura morta o di una figura.
Francesco Piazza si rese conto nel momento chiave della sua attività (che può essere posto nel 1974) che per i suoi maestri il paesaggio era solo un pretesto per eseguire della buona pittura, nell’idea del paesaggio come stato d’animo individuale dell’artista. Egli invece voleva fare della sua arte un impegno nel mondo, collocarsi cioè nell’ambito dell’uomo per contribuire a ricondurlo verso quello spazio naturale a cui, fin dagli scritti biblici, l’uomo appare predestinato. La contemplazione, la buona pittura, lo stato d’animo, erano mete che gli erano divenute insufficienti, anche perché intervenivano su un paesaggio che l’opera dell’uomo andava sempre più allontanando dalla natura, nella folle corsa tecnologica che non può avere come ultimo risultato altro che la disumanità dell’uomo artificiale, cioè l’inferno, inteso come rifiuto del sacro.
I vecchi maestri inoltre, sotto la superficie del realismo, elaboravano la pittura con i criteri della “composizione”: applicavano cioè all’immagine del paesaggio un modulo estraneo che lo violentava, dandone una visione distorta individualmente, pur con l’apparenza del realismo.
Le apparenze però non possono bastare a chi è impegnato nella ricerca di un rigore mistico o a chi sia attento alle idee prima che alle immagini. Ecco che allora Piazza, in uno scrupolo di realismo ascetico, sembra rinunciare ai presupposti compositivi, cioè a quei criteri che in accademia sono il metro per giudicare un quadro. Egli pare superare l’idea stessa della bellezza dell’immagine, in una ricerca che lo impegna sempre più sulla via della verità.
È un’idea sempre ricorrente nella storia dell’arte, che l’artista abbia il compito profetico di cercare affannosamente una verità celata nelle forme del mondo, da rivelare sceverandola tra mille miraggi ingannevoli.
Per Piazza la rivelazione avvenne ancora una volta sulle orme di San Francesco: compiuto il difficilissimo percorso di abbandonare tutte le idee preconcette e devianti, guardando al mondo con l’occhio tornato vergine di chi ha superato il contingente per attingere al sacro, le immagini naturali del mondo allora si rivelano nella loro estrema verità, quella di non essere né belle, né significanti, ma di essere soltanto se stesse, tutte egualmente partecipi di una comune sacralità.
È un percorso difficilissimo da percorrere, specie in un tempo come questo, in cui gli elementi della natura sono ovunque considerati strumenti, materie prime, scarti, cioè altro da noi che ci poniamo su un piano sempre diverso, condannandoci così a una triste storia di isolamento e alienazione dallo spazio in cui siamo stati chiamati a vivere.
La rivelazione della verità però deve essere trasmessa, pena la condanna alla solitudine e al fallimento individuale. Piazza poteva trasmettere la sua scoperta solo con i mezzi che gli offriva la pittura, nella quale doveva ripercorrere lo stesso cammino compiuto in precedenza. Bisognava trasmettere l’idea del sacro al di là di ogni ideologia.
La serena rivoluzione da applicare alla pittura non doveva risolversi nella scoperta di nuove regole formali, che avrebbe approdato solo a una ennesima avanguardia o a una nuova moda. C’era da rivoluzionare, prima e al di là della pittura, l’atteggiamento con cui ci si doveva accostare al paesaggio e agli elementi vivi di esso, l’occhio con cui lo si doveva guardare e l’animo che lo doveva sentire. Era cioè una ricerca della rivelazione del sacro che doveva avvenire attraverso l’arte.
Avvenuta la rivelazione interiore, anche la pittura ne sarebbe stata fatalmente condizionata: ecco che allora si può scoprire come un metro quadrato di terra possa essere immagine di tutto il mondo, come un giardino visto dalle finestre dello studio costituisca un universo talmente vasto da riempire tutta la vita di un pittore.
Comporre gli elementi secondo un ordine diverso da quello naturale diventerebbe allora violenza, quasi una bestemmia. Ecco che allora il riquadro costituito dalla tela o dalla lastra vergine deve essere solo lo specchio del sacro, non la sua definizione, perché il sacro è indefinibile, è al di là della parola.
Questo spiega certi modi in cui si compongono i quadri e le incisioni di Piazza, che avrebbero fatto inorridire un maestro dell’accademia. Fiori e alberi appaiono “tagliati”, come se avesse messo una cornice a delimitare un angolo di mondo, ben cosciente che, per quanto grande esso sia, resterà comunque un frammento del reale, la cui totalità resterà pur sempre fuori da questa cornice. Potrebbe sembrare una ricerca casuale, se non fosse che nel sacro la casualità non è da considerare. Si giunge così alla coscienza di un altro nostro limite, dopo quello del tempo e della morte, cioè la nostra impossibilità a definire e a conoscere compiutamente tutto lo spazio in cui viviamo.
La nostra condanna umana a vivere di frammenti di conoscenza pur nell’aspirazione della totalità, ci richiama ad altre terribili immagini dei filosofi classici. Il rifiuto dell’illusione di un mondo ricomposto nel limite del quadro, quasi impossibile sintesi di una irraggiungibile totalità è forse l’inferno di Piazza, che però è divenuto il senso stesso della sua vita, lo scopo definitivo di una ricerca spesso angosciosa. Come nei classici, il suo inferno è nel “carisma profetico insito nella creatività dell’artista a fronte della perdurante crisi illuministica”. Sono parole sue, che sinteticamente indicano il rifiuto del nostro mondo e l’antica speranza di un ritorno a quel paradiso perduto che, nello spazio in cui ora viviamo, si potrà ritrovare solo nell’ambito del vivente.